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Resistere nel silenzio  

Venerdì 18 marzo 1961

Caro Stefano,

Ti stai divertendo a Roma? Sono passati molti anni da quando ti sei trasferito nella capitale. Chissà se ti manca la tua terra… Ho letto attentamente la tua lettera, per quanto la vecchiaia possa permettermelo, e ho pensato molto a come risponderti. Il tuo dubbio è lecito: denunciare alcuni tuoi compagni di studi per episodi di violenza verso ragazzini più piccoli o stare in silenzio per timore di subire, a tua volta, lo stesso trattamento. Ho, così, deciso di raccontarti una mia esperienza poco piacevole che ho vissuto nei primi anni del secolo scorso. Ho deciso di raccontartela soltanto adesso perché solo ora hai l’età adatta per comprenderla e trarne insegnamento. Avevo pressappoco la tua età, vent’otto anni, ed ero un umile contadino già sposato con tua nonna. Tuo padre non era ancora nato ed io mi occupavo di coltivare la terra del mio padrone. Lavoravo continuamento per cercare di distrarmi dai ricordi della guerra che sembravano, in alcuni momenti, travolgermi in tutta la loro crudeltà e violenza. La politica non mi appassionava, avendo perso la fiducia nel nostro Paese in seguito alle promesse che i generali mi avevano detto e ripetuto in guerra, sul fatto che alla fine del conflitto avrei ricevuto delle proprietà. Erano solo bugie che ci dicevano per invogliarci ad andare all’assalto. Comunque, negli ultimi mesi mi era stato impossibile ignorare ciò che avveniva sulla terraferma e che sembrava voler contaminare anche la nostra Sardegna. Gruppi di ragazzi spavaldi chiamati “fascisti” si aggiravano nelle campagne e città armati facendo terra bruciata attorno a qualunque voce si opponesse. Io non li appoggiavo benché sapessi poco di loro, credevo che non fosse il momento di creare scompiglio nel nostro Paese stremato, uscito dalla guerra da pochi anni e, ancora in una situazione di miseria economica. Inoltre, disapprovavo i modi violenti dei fascisti che usavano perché mi ricordavano i miei superiori in trincea. Temevo quei ragazzi, ma allo stesso tempo volevo ribellarmi a loro, ma sapevo che sarebbero stati in pochi quelli che mi avrebbero appoggiato nella rivolta. 

Quel giorno il sole picchiava sulla mia pelle giovane e già bruciata. Ero madido di sudore per lo sforzo che stavo facendo, ma ero intenzionato a finire di arare la terra per tornare a casa il prima possibile e poter mangiare. Ero parecchio stanco quando visi un carro avanzare verso la strada difronte al campo. Strano, raramente le persone attraversavano questa strada, se non i contadini. Scrutai l’orizzonte per capire meglio chi fossero i nuovi arrivati, imitato dai miei colleghi. Improvvisamente sentì dei rumori dietro di me: un altro carro stava percorrendo la strada sterrata dietro il campo che usavo per venire a lavorare. I due veicoli si fermarono e scesero degli uomini: erano Fascisti. Li riconobbi dalla giacca nera, gli stivali neri e pantaloni del medesimo colore. Stava per succedere qualcosa di brutto, ne ero certo. Cosa volevano da dei contadini?

Si incamminarono verso di noi e mi accorsi che impugnavano delle armi di vario genere, dalla pistola al bastone. Sentì il gran bisogno di scappare, mi sentivo braccato, ma girandomi notai che ero circondato da cinque uomini armati. Non c’era scampo. Mi scambia uno sguardo complice con gli altri contadini e rimasi fermo ad aspettarli. Non sapevo ancora cosa volessero da me, ma certamente non ero intenzionato a provocarli. Il più alto, fra i Fascisti, comincio a chiamarci per nome, chiamò anche me. Ma perché? Cosa c’entravo io con loro? Solo in seguito mi ricordai d aver detto una parola di troppo durante le mie solite bevute al bar del Paese. Si avvicinarono con le pistole puntate e mi sentì una pecora accerchiata da un branco di lupi. Uno di loro diede un ordine che io non compresi: erano del Nord. La loro lingua era diversa dal nostro caro dialetto. Senza darci la minima possibilità di scappare ci legarono, puntarono le loro pistole al mio corpo. Quel modo di porsi, quegli strattoni, ordini che io a stento riuscivo a capire fecero in modo che tutto ciò che avevo provato a nascondere negli anni passati scoppiasse: i ricordi della guerra. La crudeltà che vedevo negli occhi mi ricordavano i generali di guerra che ci mandavano a morire senza nessun rimorso. Ci portarono sul carro, noi scalciavamo e urlavamo, ma la loro presa era ferma e le loro armi intimidivano. Ora a distanza di anni, penso che sia stato un miracolo che non ci abbiamo uccisi sul posto o picchiati. Il carro partì e pensai che stavo sicuramente andando in contro alla morte. Ero stato fatto prigioniero dai francesi, in guerra, ed ero stato obbligato a salire su un camion simile a quello che portava verso l’ignoto. Arrivammo in piazza e, con la pistola puntata al capo, ci trascinarono in una stanzetta. C’erano dei volti familiari, ma non salutai nessuno. La bile faceva su e giù nel mio stomaco ed ero sicuro che se non avessi fermato quei ricordi con un po’ di birra avrei sicuramente vomitato sugli stivali del Fascista. Non riconobbi la stanza, ma vidi un crocifisso che stonava con i modi bruschi e per niente cattolici dei Fascisti. La situazione era surreale. Mi decisi a scambiare uno sguardo con qualcuno alla ricerca di un po’ di conforto. Volevano fucilarci? No, basta con questi pensieri. Mi accorsi che c’erano anche delle donne. Delle donne! Questi erano impazziti, per caso!? 

Da fuori sentivo le urla di un uomo che proclamava un discorso di cui non riuscivo a comprendere le parole. Un ragazzo fascista entrò nella stanza e presero un ragazzino vicino a me, lo trascinarono fuori dalla stanza. Quello urlava, ma loro lo fecero tacere con un sguardo crudele. Noi, poveri contadini, ci stringevamo nella stanzetta nella speranza di un miracolo. Pregai Dio di salvarmi insieme alle donne, ma non accadde nulla. Eravamo rimasti in pochi nella stanza, inconsapevoli di ciò che avveniva appena fuori quella porta. Poi, un fascista, mi prese il braccio e mi trascinò fuori dalla stanza, io non opposi resistenza. Che senso aveva cercare di resistere? Non sarei mai riuscito a battermi con una persona armata. Mi condussero verso una sedia di legno, davanti a me un uomo vestito di nero con una bottiglia. Cos’era? Vicino a lui un cappellano “armato” di crocifisso osserva la scena sonnecchiando. Non sembrava molto interessato a ciò che avveniva a pochi passi da lui probabilmente era abituato a queste esecuzioni. Il comandante della spedizione fece un breve discorso che io non compresi e lo concluse con la frase: “Bevi nel nome della Patria!”. Le persona svolgevano le loro faccende evitando di fissarmi negli occhi, consapevoli che se l’avessero fatto non avrebbero potuto ignorare ciò che accadeva vicino a loro. 

Qual era la Patria che loro volevano che io onorassi? Quella che mi aveva abbondato sulle montagne piemontesi? No, quella non era la mia Patria. Fissai negli occhi il comandante cercando di trovarci della pietà, ma trovai il nulla. Solo nero. In quello sguardo rividi il mio comandante, la guerra stessa, che non perdonava nessuno. Perché quell’uomo non rivedeva me in lui? Come faceva a ignorare il terrore che trapelava dai miei occhi? Come faceva a essere così cieco? Quella situazione mi ricordava così tanto la guerra. 

Rimasi in silenzio, con le labbra serrate. Mi opposi senza dire nulla. Non mi sarei fatto sottomettere al male ancora una volta. No. Mi rifiutai di bere. Avevo preso una posizione irremovibile, forse per la prima volta nella mia vita, ed ero pronto a subire le conseguenze del mio dissenso. Quello che stavano facendo era sbagliato. L’obbedienza, l’ordine e la disciplina erano ciò che pretendevano i fascisti ed io non avrei seguito il loro volere, non un'altra volta. Il comandante mi minaccio nuovamente con la pistola di bere, ma le minacce riuscirono vane. I fascisti presenti urlavano “Morte al rinnegato”. Nella piazza le donne piangevano. Il comandante urlò “Silenzio!” e mi ordino per la terza volta di bere e io…stetti in silenzio. In quel silenzio c’era rabbia per ciò che mi stavano obbligando a fare. Non c’era umanità in quelle persone solo obbedienza cieca. Era innaturale che un uomo si comportasse in questo modo con un suo pari, l’umanità non aveva imparato la lezione durante la Grande Guerra. La crudeltà degli anni passati sembrava essere dimenticata, le cose si ripetevano con una forma diversa. Ora il lupo nero non era il soldato nemico stanco e sofferente quanto te, ma una persona con cui condividevi le tue radici che, vestito elegantemente, ti intimava di bere l’olio di ricino. Mi meritavo questa punizione? Non avevo fatto altro che esprimere un parere. Ero arrabbiato, furioso, perché non volevo che la mia voce venisse schiacciata ancora. Sapevo che col mio terzo “no” avevo firmato la mia condanna a morte eppure ero nel giusto, ne ero sicuro. Mi ricordai di tutti i prigionieri che avevo ucciso a sangue freddo per non fare a loro volta la loro fine e cercai delle parole per oppormi e mostrare il mio dissenso, ma riuscì soltanto a rispondere volgarmente. Ero un contadino, non avevo studiato, faticavo a esprimermi. Un omone carico di distintivi e sciarpe di avvicino impugnando un manganello. Buio. 

Ti risparmio la paura di tua nonna vedendo il mio corpo tramortito e la promessa che mi fece giurare di mantenere: non avrei dovuto mai più interferire coi fascisti. Ti risparmio anche la ferita sulla testa e il dolore che provai per mesi in merito al colpo di manganello. Sono stati dei mesi difficili quelli che hanno seguito l’episodio, raramente le persone parlavano con me per paura di venir feriti dai fascisti a loro volta. 

Non mi considerò un eroe, ma soltanto una persona, che almeno una volta nella sua vita ha detto “no” alla violenza opponendosi irremovibilmente. Fa solo ciò che senti di dover fare caro nipote e non sbaglierai mai. Subirai le conseguenze indipendentemente dalla scelta che farai, quindi fa’ solo ciò che ritieni giusto. Segui la tua legge morale. La porta della mia casa è sempre aperta se hai bisogno d’aiuto.

Cari saluti,

Il tuo caro nonno.   

Giorgia Maroli

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