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IL DISSENSO SILENZIOSO

Testo liberamente ispirato alla lettura ed analisi de "Il battesimo fascista", tratto da "Marcia su Roma e dintorni" di Emilio Lussu

Mi alzo come ogni mattina. I raggi del sole appena sorgono. Il buio invade ancora la casa. Lentamente anche Maria si sveglia. Le assi del legno scricchiolano sotto i nostri piedi. Maria si affretta a prepararmi il pasto che mangerò oggi, mentre lavorerò. Nel mentre, mi vesto. Appena i panni coprono la mia pelle mi sento me stesso, mi sento a casa. Raggiungo mia moglie, afferrò il pranzo e la brocca d’acqua che mi ha preparato ed esco di casa. 

Mi fermo di scatto. In fondo al nostro vialetto noto un gruppo di persone che si stanno dirigendo verso di me, verso casa nostra. Più si avvicinano e più riesco a riconoscerli. Inconfondibili. Camicia e pantaloni neri. Cappello del medesimo colore. Non c’è dubbio, sono esattamente come me li hanno descritti. Ma la domanda che mi sorge è “cosa ci facciano in un paesino sperduto della Sardegna? Cos’hanno intenzione di fare? E perché stanno venendo proprio verso casa mia?” Smetto di colpo di farmi domande. Mi fermo e aspetto che arrivino. Sarà di certo uno sbaglia, non è possibile che…

Di colpo me li vedo piombare davanti ed uno di loro mi afferra violentemente. Tenta di immobilizzarmi, ma io inizio a contorcermi e ben presto un suo compagno viene ad aiutarlo. Quello che sembra avere il comando di questo gruppetto mi si avvicina ed inizia a parlarmi. Io non capisco. Il mio italiano è scarso. Le orecchie fischiano e il cuore batte velocemente. La testa è un turbine di pensieri. Gli chiedo di ripetere. Questo, irritandosi ulteriormente, mi colpisce in pieno volto. Sono stordito dalla forte botta che ho preso. Ho smesso di provare a capire ciò che il fascista sta dicendo. 

Non c’è dubbio. Mi hanno scoperto. Hanno scoperto il mio tradimento. Qualcuno di cui mi fidavo mi ha ingannato. Un vicino? Un amico? Un fratello? Chissà. Ora so solo che mi hanno preso, e non sono certo di ciò che mi accadrà.

Le urla dell’uomo attirano l’attenzione di Maria, che subito esce allarmata dalla porta. Mi vede. Io la guardo. I nostri occhi dicono tutto quello che non possiamo dirci. Anche lei ha capito. Vorrebbe venire da me. Vorrebbe abbracciarmi e baciarmi. Lo leggo nei suoi occhi che mi ricordano la mia amata Sardegna. La saluto anch’io con gli occhi. Le dico addio. Nessuno sa se mai ci rivedremo. 

Vengo trascinato via, dopo esser stato legato. Mi volto a guardarla un’ultima volta. Un ragazzo del gruppo le si avvicina. Vorrei urlare. Vorrei dirle di chiudersi in casa, di aspettarmi. Ma nulla di tutto ciò accade. Dalla mia bocca esce solo un gemito strozzato. Più mi allontano, più sento mi sento inondare da un dolore che non avrei mai voluto ricordare. Che speravo di non ricordare mai più. Ho paura solo anche solo ad invocarlo. Accantono quindi il pensiero, cercando di concentrarmi sui fascisti attorno a me. 

La domanda “Chi mi ha tradito?” continua a rimbombare nella mia testa. Ma ormai non ha senso trovare un colpevole. A che cosa gioverebbe? Magari, dopo oggi, non tornerò più nell’osteria in fondo alla via. Non tornerò più a lavorare. Non sentirò più il sole cocente sulla mia pelle. Non tornerò più a Casa.

 

Il tragitto è breve. Capisco subito dove stiamo andando: nella piazzetta del nostro paesello. Mi trascino. Strascico i piedi per terra. Visto da fuori sembro esausto. E forse è davvero così, ma dentro di me sono vivo più che mai, le domande in me sono vive. Domande a cui però non oso dare voce. Domande senza una risposta. Domande silenziose, che i miei occhi tentano di esprimere, ma che nessuno ascolta.

Arriviamo in piazza. Noto un gruppetto di compaesani che conosco, legati e immobilizzati come me. Significa che non sono solo. Ci salutiamo tutti con un cenno del capo. Nessuno apre bocca, ma tutti vorrebbero parlare. Hanno paura. Abbiamo paura.

 

Il dubbio su cosa ci accadrà viene presto dissolto. Notiamo dei flaconcini pieni di olio di ricino. Tutto mi è chiaro. Ne avevo sentito parlare. Lo chiamano “Il battesimo fascista”. Una punizione per noi oppositori. Una punizione, ed un’umiliazione, sottoforma di “cerimonia”.

Non so cosa fare. Mi sento spaccato in due. Guardo le mie mani. Callose. Color rame. Sporche. Questo sono io. Un anonimo contadino, senza una vera cultura. Un anonimo contadino che ha una famiglia da mantenere, ed una vita da continuare. Perché oppormi? 

Ed è esattamente in questo momento che mi tornano in mente gli anni di guerra. I volti incancellabili dei miei compagni che dalla trincea non sono mai tornati. Il corpo sfregiato e la mente segnata. Le promesse mai mantenute e le menzogne a cui ho creduto. Sono forse disposto a ritornare in quel mondo? In quella crudeltà?

In questo esatto momento tutte le mie domande si dissolvono. Mi convinco che questo non sia un atto egoista. Questa decisione è giusta. Giusta per tutte quelle persone che verranno dopo di me, che non devono vivere l’orrore della guerra. Sarò anche un contadino qualunque, ma non sono stupido. Resisterò. 

 

Arriva il mio turno. Troppo in fretta. La sicurezza di prima vacilla un po’. Maria, il suo sorriso e i nostri figli riempiono la mia mente. I nostri momenti insieme, la famiglia e la casa che abbiamo duramente costruito… Tutto potrebbe andare in frantumi in giro di pochi secondi. Questi pensieri vengono subito offuscati dagli orrori della guerra. I miei ricordi mi confondono, mi fanno girare la testa. Mi fanno perdere la concentrazione. Il sangue pulsa veloce nelle mie orecchie. 

Uno di loro mi spinge da dietro. Mi sbilancio. Non lo avevo visto. Sto per cadere, quando mi sento afferrare bruscamente. Mi trascinano ancora un po’, fino ad arrivare al centro della piazza. Osservo i pochi vicini che si trovano qua attorno a me. E ancora una volta mi chiedo chi abbia informato il gruppo qui presente del mio dissenso. Il tradimento brucia. Brucia ancor di più se è quello di un amico, di un fratello…

Scaccio quel pensiero e mi concentro su un punto fisso di fronte a me. Non guardo nessuno. Ma so che tutti mi guardano. Apparentemente sono sicuro di me, di quello che sto facendo. Ma dentro sono dilaniato da una paura lacerante.

Il fascista mi ordina di bere.

Io continuo la mia protesta silenziosa. L’uomo ripete la stessa frase, e le sue urla rimbombano nel piazzale e nelle mie orecchie. Mi afferra il mento con violenza e fa scontrare i suoi occhi coi miei. Posso scorgere la sua indignazione e la sua umiliazione per il mio silenzio. Mi tira uno schiaffo. Ripete la stessa frase. Ci riprova una seconda volta, ma il risultato è lo stesso: il mio silenzio.

Allora un altro inizia a tirarmi dei pugni. Mi afferrano i capelli. L’altro prende in mano un manganello ed inizia a colpirmi. Continuano e continuano. Ad un certo punto non riesco più a resistere. Li aggredisco anch’io, e, con l’ultima traccia di forza e coraggio, li insulto. Un insulto abbastanza innocuo, ma che in loro fa scattare una rabbia ancor più violenta. Non mi sono piegato davanti alla loro aggressività, e questo li fa impazzire.

Ciò che prima mi facevano non è nulla messo a confronto a ciò che mi stanno infliggendo ora. Gli schiaffi, gli sputi, le manganellate, si susseguono, una più violenta dell’altra. 

Penso di morire, sto sentendo la vita abbandonare il mio corpo. Mi sento però sorprendentemente fiero. Una morte gloriosa per me. Non ho fatto atti eroici, ho semplicemente fatto ciò che era giusto. Mando un ultimo saluto a Maria e ai miei figli. Nel frattempo sento i miei ex compagni di guerra aspettarmi. Non ascolto più nulla. Non sento più nulla. Solo una quiete inquietante. E all’ennesima manganellata sprofondo nell’incoscienza. 

Ecaterina Gidioi

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