LA FORZA DEL SILENZIO
Voglio partire con una premessa: in questo momento sto scrivendo in primis come sorella maggiore di tre bambine, di cui una di pochi mesi. Questo è il motivo per cui mi sono identificata nella protagonista del film “L’uomo che verrà” di Giorgio Diritti. Una bambina di otto anni, cresciuta in una famiglia di contadini, tra le colline bolognesi, con un desiderio incontenibile di avere un fratellino. Questa è Martina. Questa è la sua vita.
Siamo negli anni ‘43/44, in pieno conflitto mondiale, ma la vita di questi paesini sperduti tra i colli bolognesi, riesce a proseguire nonostante gli “intoppi” causati dai soldati nazi-fascisti.
Martina è la più piccola della famiglia, e desidera ardentemente un fratellino da amare. Precedentemente, la madre Lena aveva partorito un bel bambino, che però era morto tra le braccia della ragazzina. Dopo questo episodio traumatizzante, Martina si rinchiude in un mutismo ostinato, che non vedrà una fine fino all’ultima scena del film. A causa di questo suo blocco, chiamato ai nostri giorni “mutismo selettivo”, Martina verrà presa in giro dagli altri bambini, disprezzata molte volte, ma ciò non intaccherà la sua tenacia.
I mesi passano, e all’inizio del ‘44, Lena rimane nuovamente incinta. Martina seguirà attentamente tutta la gravidanza, rimanendo affascinata dall’idea della nascita, del potere di dare la vita, stando così nel suo silenzio per la durata dei 9 mesi di gravidanza. Quando poi il bambino nasce siamo circa a settembre dello stesso anno, e la quiete del paese, che fino ad allora non era stata danneggiata, viene frantumata. La tensione tra i partigiani e i soldati fascisti si fa sempre più acuta a causa dell’avanzata da parte degli alleati, così ad un certo punto i nazisti decidono di devastare, annientare, tutti i paesini dei colli emiliani, poiché considerati complici dei ribelli.
Nel giro di poche ore i soldati nazisti radunano tutti, donne, bambini ed anziani, e li rinchiudono in chiese o cimiteri, per poi ucciderli, accusandoli di essere partigiani. Tra essi vi sarà anche Martina che, divisa immediatamente dai suoi famigliari, lasciata sola di fronte al proprio destino, riuscirà miracolosamente a sopravvivere. La madre e la nonna verranno uccise a sangue freddo, così come il padre poco dopo. Nel frattempo masse intere di persone verranno radunate e sterminate, uccise da una crudeltà spietata.
La bambina correrà poi dal suo fratellino, che aveva precedentemente nascosto in un rifugio nel bosco, e andranno poi insieme alla cascina della famiglia.
Il film si conclude con la seguente scena: Martina che, con in braccio il fratellino, intona una ninna nanna, parlando per la prima volta dopo mesi.
Questo film mi ha colpito moltissimo, per più aspetti, ma il principale è sicuramente il modo in cui mi sono rispecchiata nella protagonista.
Da poco è nata Victoria, la mia terza sorellina, è mi sono rivista nella premura e nell’amore che Martina prova per il suo fratellino. Lei, durante l’attacco (e non solo, anche dopo), ha vissuto per salvarlo, mettendo a forte rischio la sua incolumità, ma ciò non le ha impedito di cercare dappertutto del nutrimento idoneo per un neonato.
Ad un certo punto stavo vivendo quel film... Sentivo e provavo le emozioni che la protagonista stava esprimendo. Io ero Martina. Victoria era il fratellino. E il terrore che provavo al solo pensiero di perderla mi aveva provocato un dolore tale da piangere.
Con ciò non voglio dire che Victoria per me sia più importante delle mie altre due sorelline, ma in quel momento, mentre stavo guardando il film, vedere il bambino, così simile a mia sorella, così indifeso mi ha fatta concentrare su un unico pensiero: “Cosa avrei fatto se mi fossi trovata in una situazione simile? Se davvero al posto di Martina ci fossi stata io? E se davvero il fratellino fosse stato in realtà mia sorella Victoria?”
Devo essere sincera: ho paura a rispondermi. Ho paura di scoprire che in realtà io non riuscire a sopravvivere ad una situazione simile. Non riuscirei a salvare né Victoria, né le mie altre due sorelle, né me stessa.
Di una cosa però sono sicura, proverei a salvarle. Salverei loro piuttosto che me stessa. Ed è la verità. Spesso non lo dimostro, ma per me loro sono il mio mondo, e chi non proverebbe a salvare il proprio mondo? Penso che un dono più grande di questo, avere delle sorelle o dei fratelli, non ci sia. Loro non sono rimpiazzabili, non sono sostituibili. E se si è anche fratelli maggiori come me, ci si sente anche responsabili ed in dovere di proteggere chi è più piccolo. Non voglio dire che chi non ha sorelle o fratelli più piccoli non possa essere protettivo, ma non potrà mai capire cosa si prova ad amare così tanto qualcuno del tuo stesso sangue, che forse ti ha anche rubato la scena, e di cui potresti essere geloso, ma almeno sai che lì troverai quasi sempre “CASA”.
Per me questo film ha rappresentato uno specchio, dove ho visto una storia che avrebbe potuto vedermi protagonista in tutti i sensi.
Consiglio vivamente a tutti, sia a chi ha fratelli o sorelle, sia a chi è figlio unico, di guardarlo. Ma non guardatelo solo con gli occhi, guardate con il cuore e amatelo. Imparate ad interpretarlo e a decifrarlo, solo così lo apprezzerete davvero e potrete dirlo di averlo guardato davvero.
Ecaterina Gidioi