TESTIMONIARE, FOTOGRAFARE, RACCONTARE
In questi ultimi mesi con i professori abbiamo affrontato il problema della scelta della scuola superiore che vorremmo frequentare il prossimo anno in prospettiva di un lavoro futuro. Uno dei tanti spunti forniti dalla scuola a noi, alunni di terza media, è stato quello di un appuntamento d’orientamento speciale: i Maestri del Lavoro, ovvero uomini e donne che sono state premiate nel loro ambito lavorativo per la loro costanza, il loro impegno e le loro conoscenze. Queste persone sono riuscite ad eccellere nel “mondo del lavoro” trovando la strada giusta per loro stessi attraverso sacrifici, impegno per potenziare quelle capacità che sentivano di avere, non solo in ambito scolastico. L’esperienza ci ha fatto ragionare sul fatto che il mondo del lavoro non è molto lontano da noi, la scuola superiore che dura solo cinque anni, inciderà sicuramente sulle nostre scelte future. Ogni sistema scolastico offre percorsi formativi diversi, che possono garantirci capacità e competenze diverse. Per questo, noi ragazzi, dobbiamo pensare ad un ipotetico “lavoro dei nostri sogni” o ad una nostra ambizione per scegliere il più coscienziosamente possibile la scuola superiore.
Personalmente, fin da piccola sono sempre stata una bambina molto curiosa di tutto ciò che mi circondava: amavo riempire di domande (spesso per i grandi senza senso logico, perché davano per scontato le risposte) i miei genitori. Adesso, ricordando la mia infanzia, i miei parenti mi ripetono che in ogni mia frase non poteva mancare il classico “perché?”. “Perché questo? Perché quello?” sembrava non sapessi dire altro, ma ero solo una bambina alle prese con il mondo e stavo solo cercando di conoscere ciò che mi circondava. Ho sempre cercato di capire i motivi per i quali alcune cose accadevano, dallo sbocciare di un fiore al modo per andare in bicicletta. Crescendo questa mia “sindrome del perché” non mi ha abbandonato, anzi ho continuato a coltivarla nel mio giardino personale: mi piaceva leggere i libri sui miti greci, sui fondali marini e su molto altro. Oggi posso dire di essere molto interessata a ciò che accade vicino o lontano da me, mi piace essere informata, leggere il giornale e riportare qualche articolo con una mia interpretazione sul magazine d’istituto, di cui sono la vice direttrice. Ciò che ritengo più bello e significativo di questa “esperienza giornalistica” è proprio il fatto di poter esprimere una mia opinione rispetto alle vicende senza essere obbligata a seguire le linee guida che mi potrebbero imporre delle vere redazioni. Probabilmente, proprio per questa mia voglia di capire e conoscere, è nata in me la passione per il giornalismo e, successivamente per il giornalismo di guerra. Questo sogno è nato quando ho assistito, mesi fa, ad una notizia del telegiornale in cui si parlava del fatto che fossero stati inviati molti reporter da tutto il mondo per conoscere una situazione cinese che sembrava rimanere nel mistero. In quel momento mi sono detta: "ecco cosa voglio fare da grande, ho trovato il lavoro giusto per me”. Tutt’ora non so se riuscirò a realizzare il mio sogno, ma sicuramente rimarrà una delle mie ambizioni maggiori.
Sono consapevole che sia un lavoro ad alto rischio e molto stressante, ma penso che mi piacerebbe molto praticarlo: scoprire le ingiustizie del mondo e denunciarle. L’impegno che bisogna fare per ottenere questo lavoro è molto, prima di tutto bisogna frequentare un corso di giornalismo, poi è consigliato seguire una scuola di fotografia dato che il reporter di guerra deve avere dimestichezza con la macchina fotografica e con l’attrezzatura per fotografare, per saper documentare con le immagini tutto ciò che vede. Il suo lavoro, infatti, non si basa soltanto sulla scrittura di un avvenimento, ma anche sul sapere scattare la “foto che parla” che possa raccontare i fatti con i colori e le figure inquadrate. Inoltre, il reporter deve saper parlare fluidamente l’inglese, l’arabo, il russo e il francese per comunicare con le popolazioni. La comunicazione è, infatti, uno dei principi della documentazione: il giornalista deve saper interagire con le persone e farsi capire per poter conoscere la loro storia e le loro sofferenze in merito a ciò che accade nelle zone di guerra e non solo. I percorsi di laurea più consigliati per intraprendere questo lavoro sono: giornalismo economico finanziario per capire le situazioni economiche dei vari Paesi, giurisprudenza per conoscere la legge in modo più approfondito, scienze politiche per essere esperta di relazioni internazionali e scienze della comunicazione, per saper comunicare con le varie etnie. Quest’ultima branca è consigliata, in particolar modo, per i giornalisti radiotelevisivi. Il percorso standard del giornalista di guerra è quello di partire dai giornali del luogo scrivendo inediti e articoli, poi cercare di entrare a far parte delle redazioni più famose. A questo punto, il suo obiettivo è quello di poter avere l’occasione di occuparsi di una spedizione in luogo di guerra insieme ad altre persone fino ad ottenere il titolo finale di “giornalista di guerra”. Il lavoro, richiede, perciò, molto tempo e costanza perché la strada per arrivare a ricoprire alcuni ruoli è molto difficile e tortuosa, come in tutti i lavori. Il giornalista di guerra deve sapersi adattare a condizioni di vita disagevoli e pericolose caratteristiche dei territori di conflitto, deve saper affrontare le situazione con calma e dimestichezza e riuscire a maneggiare nel corso di interviste e avvenimenti empatia e freddezza nello stesso momento; deve capire i disagi di queste persone costrette a vivere in zone di guerra o a farne parte, ma allo stesso tempo deve rimanere distaccato da questa realtà perché potrebbe finire in situazioni molto complicate. È proprio questo uno dei motivi per i quali i giornalisti di guerra vengono imprigionati o uccisi.
Il giornalista di guerra, e non solo, deve sapersi vaccinare all’indifferenza, scegliendo di non ignorare ciò che avviene intorno a lui. Deve essere sempre curioso e domandarsi continuamente le 5w (Who, What, When, Where e Why). Deve saper “fiutare” i conflitti ed avere la curiosità necessaria per cercare di capirne l’essenza.
Mi sono interrogata su quale fosse la storia del giornalismo di guerra e la sua definizione, scoprendo che è un racconto molto intrigato e “tortuoso”. Il lavoro al quale aspiro è una branca della redazione giornalistica che si occupa di descrivere e raccontare le vicende belliche attraverso inviati e corrispondenti di guerra. Da sempre l’uomo ha sentito il bisogno di raccontare le vicende di guerra a chi non poteva prendere parte e lasciare, in questo modo, la traccia di una battaglia o avvenimento. I primi reporter di guerra sono stati i cavernicoli, che raccontavano le loro “cacce al bisonte” tramite disegni ed iscrizioni, successivamente sia nella storia greca che nell’Impero Romano abbiamo avuto personaggi che hanno raccontato le gesta epiche del loro tempo come, per esempio, Omero o il condottiero Giulio Cesare. Per gli storici il primo giornalista di guerra riconosciuto è Erodoto che, raccontò, le cause e le vicende della guerra fra le poleis della Grecia e l’impero persiano. La sua narrazione ha il metodo tipico del giornalista: “andare-vedere-raccontare”. Il giornalismo di guerra si sviluppa durante la rivoluzione francese, ma soprattutto, durante il risorgimento. Perché era necessario creare ideali di massa. Un fenomeno di giornalismo di guerra del nostro territorio è “L’eco del Po”, un quotidiano risalente al 1848 durante il periodo della Prima Guerra d’Indipendenza italiana. Era diretto da Antonio Strambio. Esso veniva stampato a Casalmaggiore dalla tipografia Verdi e Bizzarri del Paese e serviva per informare le persone dell’andamento della guerra grazie ad inviati o alle lettere degli ufficiali, inoltre cercava di influire sul pensiero delle persone orientando la coscienza nazionale verso una monarchia costituzionale. Il giornalismo di guerra serviva, infatti, non solo per informare le persone del presente, ma anche per creare le basi e le ideologie delle persone per il futuro.
La prima figura di vero reporter di guerra obiettivo rispetto ai due fronti è stata quella dell’inviato irlandese del “Times” di Londra, William Howard Russell nel 1854. Egli seguì la guerra di Crimea tra Inghilterra e Russia. È stata la prima volta che un giornale otteneva l'autorizzazione per poter inserire un proprio giornalista tra le truppe. Russell però, dovette procurarsi da solo il cibo e l’alloggio. È ricordato per il suo lavoro serio e meticoloso, egli faceva interviste a chiunque, dai soldati agli ufficiali, raccoglieva dati di ogni genere e spesso si rendeva disponibile per aiutare l'esercito inglese. Nonostante questo il suo lavoro fu indipendente da un proprio giudizio e riuscì a non lasciar trapelare il suo pensiero personale in merito alle vicende, che documentava senza dimenticarsi di criticare anche l’esercito inglese, ovvero il suo Paese.
L’impatto degli articoli di Russell fu dirompente sul pensiero dei lettori e, per la prima volta, l’uomo si rese conto della potenza della stampa libera da censure e influenze.
Uno dei più famosi giornalisti italiani di guerra a livello nazionale è stato Luigi Barzini. Egli si occupò della guerra russo-giapponese. Dall’esperienza di questo scrittore ho potuto desumere che i giornalisti di guerra devono avere la capacità di descrivere la reale condizione in cui sono costretti a vivere soldati e civili.
Durante la Grande Guerra il giornalismo fu influenzato quasi completamente dai governi. La stampa cercò di spingere la popolazione verso la guerra anche se gran parte era contraria. La storia del giornalismo di guerra raggiunse il periodo di maggior censura da parte dei governi durante la Seconda Guerra Mondiale. Furono circa 3000 i giornalisti che seguirono le operazioni militari sui fronti, ma solo una piccola parte si ribellò alla censura di stampa. Inoltre, in questo periodo, grazie alle invenzioni della radio, i film e i cinegiornali il giornale non fu il maggior modo di comunicazione. La stampa tedesca e italiana si premurò di nascondere al mondo quello che realmente stava accadendo nei lager nazisti. Solo Curzio Malaparte scrisse un articolo riguardante la deportazione degli ebrei, ma fu un argomento che non apparve mai sulle prime pagine dei giornali e perciò venne ignorato dall’opinione pubblica. Tutti i giornali con idee anti fasciste o non inerenti alla cultura nazista- fascista furono chiusi, come per esempio in Italia, “l’Avanti”. In Gran Bretagna la libertà di stampa era maggiore, mentre negli Stati Uniti ogni fotografia o articolo doveva superare il controllo di un apposito centro di censura prima della pubblicazione. I reporter di questo periodo erano obbligati, come anche adesso, a seguire la battaglia al fianco dei soldati per avere gli scatti più belli e le storie di vita più emotive e realistiche.
Il 6 agosto del 1945 l’inviato del “New Yorker” John Hersey riuscì a raccontare gli effetti della bomba atomica raccontando, nel suo articolo “Hiroshima”, la storia di sei persone che sopravvissero all’accaduto.
Uno dei migliori resoconti di giornalismo di guerra è quello della guerra del Vietnam, che è ricordato come il migliore della storia, riuscì a smascherare le menzogne della Casa Blanca e a incidere sulle sorti della guerra. Molti furono i reporter che con coraggio, grazie al potere comunicativo della televisione, allo sviluppo tecnologico ciò che realmente accadeva in Vietnam. Durante questa guerra scesero in campo, per la prima volta, squadre di giornaliste che aveva seguito l’esempio di Anne O'Hare McCormick, prima donna vincitrice del Premio Pulitzer nel 1937 per le sue corrispondenze dall'Europa. La prima donna italiana giornalista di guerra è stata Oriana Fallaci che scrisse più di 800 pezzi per varie testate giornalistiche tra cui “L’Europeo”. Ella riuscì a far emergere la drammaticità della guerra.
La testimonianza più recente della storia del giornalismo si basa su ciò che sta accadendo in Afghanistan, tutti i giornalisti che sono rimasti sul luogo per documentare la riconquista talebana di Kabul sono costantemente in pericolo. Molti di loro sono scappati precedentemente, spaventati dalle possibili conseguenze che avrebbero subito rimanendo nella città. Le giornaliste di guerra non vengono considerate dai Talebani durante le interviste, ha dichiarato Clarissa Ward, una giornalista rimasta sul luogo. Ciò che mi colpito della sua esperienza è il fatto che, si è dovuta adattare alle “tradizioni” talebane, per cui, se agli inizi indossava solo il velo approssimamente annodato adesso deve indossare la divisa tradizionale delle donne talebane.
Tuttora le informazioni passano veloci, e le immagini fanno fatica ad essere censurate e nascoste persino da un regime tanto interdicente come quello talebano. Il ruolo del reporter è, infatti, sempre stato condizionato dal periodo storico e dalle tecnologie che venivano offerte. In questi ultimi anni, grazie ai social e ai cellulari le notizie sembrano correre. I giornalisti di guerra hanno dovuto seguire questa “corsa” rimanendo al passo con le invenzioni. Macchine fotografiche migliori equivalgono a scatti più dettagliati e di qualità, computer e telefoni moderni equivalgono ad un trasporto più veloce delle informazioni. Col tempo questo ultimo punto è cambiato molto, come si può osservare nella foto: dalla macchina da scrivere si passa al computer. Inoltre, il giornalista di guerra era molto meno protetto fisicamente da possibili attacchi nemici a causa delle tecnologie meno sviluppate, esso indossava un cappello, pantaloni, camicia, binocolo, giacca e una borsa con tutto il materiale. Oggi, invece, il reporter vestiti comodi e, anche, giubbotti anti protetti.
Il mondo del giornalismo è cambiato molto nel corso della storia, ma ciò che è rimasto immutabile è la desolazione al quale il giornalista assiste e che decide di denunciare, se la censura lo permette.
Anche la censura è una costante del giornalismo di guerra perché, ancora oggi, in molte nazioni i giornalisti non hanno il diritto alla libertà di stampa. Il team “Secondo Reporter Senza Frontiere” ha fatto una ricerca sulla libertà di stampa nel mondo e ha rilevato che più di un terzo della popolazione mondiale vive in nazioni dove non esiste questo diritto, come per esempio la Corea del Nord, l’Arabia Saudita, la Cina, il Vietnam, l’Iran, la Guinea Equatoriale, la Bielorussia, la Russia e Cuba. I dati sono preoccupanti perché la libertà di stampa è fondamentale per l’informazione e la comunicazione. La censura di stampa equivale a togliere alle persone la possibilità di denunciare le ingiustizie del mondo. È come posare una mano sul viso dell’uomo per condizionare le sue idee. Senza libertà di stampa le persone sono private del diritto di avere un pensiero soggettivo.
Il reporter di guerra ha, per questo, un compito molto delicato: raccontare alle persone la verità sui luoghi di guerra rimanendo oggettivo rispetto ai fatti. È un lavoro faticoso che richiede molto impegno e tempo.
Una frase che mi ha colpito è quella di Domenico Quirico: “la necessità di raccontare è qualcosa di più importante della paura.” Questa citazione significa che nel mondo del giornalismo di guerra la verità è fondamentale, è qualcosa che deve essere raccontato perché tutti devono avere la possibilità di conoscere veramente ciò che accade. Il reporter deve superare la “paura del racconto” perché ciò che deve dire è troppo importante per essere taciuto e nascosto all’opinione pubblica. Molti giornalisti sono stati uccisi proprio perché hanno scelto di parlare e denunciare. Ne è un esempio Ilaria Alpi, una giornalista e fotoreporter italiana, assassinata a Mogadiscio davanti all’edificio dell’ambasciata italiana, dove lavorava come inviata per il TG3, insieme al suo cineoperatore Miran Hrovatin. È stata uccisa perché aveva scoperto traffici internazionali di rifiuti tossici e, per questo, la Somalia ha deciso di “vendicarsi con l’Italia”.
Grazie a tutte queste informazioni ho capito meglio il ruolo del giornalista di guerra e sono diventata più consapevole del fatto che la mia ambizione è veramente difficile da raggiungere, pericolosa e inusuale. Diventare giornalista di guerra è una grande responsabilità, sono consapevole del fatto che le statistiche dicano che sia normale che muoiano dei reporter durante le battaglie. Sinceramente sono intimorita da ciò che probabilmente sarò costretta a vedere e a vivere, il lavoro include molteplici pericoli e rischi. Nonostante tutto questo ci sono anche degli aspetti positivi, come la soddisfazione di aver fatto qualcosa di fondamentale per informare le persone di ciò che accade nelle zone di guerra; la cultura che avrò rispetto alle popolazioni locali e alle loro tradizioni, vedere un mio testo esposto nelle prime pagine e la felicità nell’aver immortalato l’attimo perfetto di una vicenda, dalle emozioni che traspaiono dal viso di una persona e di averlo saputo descrivere per informare. Penso sia un lavoro molto difficile, perché nel caso si scoprano fatti che dovevano rimanere nel mistero serve molto coraggio per denunciarli, ed io non so se ne avrei la forza. Inoltre, non sono sicura che riuscirò a rimanere impassibile di fronte alle ingiustizie senza fare niente per aiutare le persone in difficoltà perché andrei contro i miei principi, ma so che sarò obbligata a sottostare alla censura in quegli Stati che non rispettano la vita degli esseri umani. Quando dico il mio sogno lavorativo le persone sembrano essere destabilizzate dalla mia scelta. “Perché? Vuoi morire?”, è la domanda che mi viene rivolta maggiormente. Conosco i rischi, ma so, anche, che non è giusto rinunciare ad un sogno per paura. Forse, questa idea di diventare giornalista di guerra sarà soltanto il sogno di una ragazzina, ma ora non voglio smettere di sperare di raggiungere la mia ambizione.
Mi immagino da adulta con una squadra di inviati nelle zone del Medio Oriente alla ricerca di uno sguardo, di una parola sincera che abbia deciso di smettere di nascondere e coprire le ingiustizie e i diritti negati. Spero di riuscire a diventare parte della storia della giustizia per aiutare il mondo a migliorare. Un solo uomo può, infatti, con la sua testimonianza cambiare il corso della storia.
Giorgia Maroli